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IL MOLTEPLICE VIAGGIARE
Incontro a cura di Paolo Vecchi
con: Monika Bulaj, Davide Ferrario, Paolo Rumiz, Massimo Zamboni

Nella magistrale prefazione al suo L’infinito viaggiare (Mondadori, Milano, 2005), Claudio Magris delinea una mappa di lancinante pertinenza dei rapporti tra la letteratura e uno dei tòpoi più frequentati nella cultura occidentale. La prima citazione - e il fatto non è probabilmente casuale - riguarda “un grande teologo in cammino”, Karl Rahner, secondo il quale solo con la morte cessa lo status viatoris dell’uomo, come d’altronde ben sapevano Baudelaire e Gadda. Il viaggio implica infatti il differimento della morte; dunque, come per altri versi e altre pratiche cantava Fabrizio De André (A forza di essere vento), si viaggia non per arrivare, ma per viaggiare, per arrivare il più tardi possibile, per non arrivare possibilmente mai.
Fin dall’Odissea, viaggio e letteratura appaiono strettamente legati, facendosi interpreti di un’analoga esplorazione, decostruzione e ricostruzione del mondo dell’io. Saltando a piè pari per ragioni di spazio frotte di romantici voyageurs, da Goethe a Novalis, da Holderlin a Sterne, si arriva a una tipologia novecentesca in cui al viaggio circolare, tradizionale, classico, edipico, conservatore di Joyce, subentra quello rettilineo, nietzscheano dei personaggi di Musil, un viaggio che procede sempre in avanti verso un cattivo infinito. Il viaggio-scrittura è un’archeologia del paesaggio; il viaggiatore – lo scrittore – scende come un archeologo nei vari strati della realtà, per leggere anche i segni nascosti sotto altri segni. Ma viaggiare è immorale, come sosteneva Weininger, perché implica la tentazione dell’irresponsabilità; chi viaggia è spettatore, non è coinvolto a fondo nella realtà che sta attraversando (pur partendo da presupposti diversi, diceva pressappoco lo stesso anche Paul Nizan in Aden Arabia). In questo senso, come ha scritto Giorgio Bergamini, il viaggiatore mitteleuropeo è facilmente un Ulisse in veste da camera, chiuso dinnanzi alla diversità del mondo. Fin qui – e per capi davvero sommi, oltre che arbitrari – Magris. Un panorama imprescindibile, anche se inebria e spaventa la sua ampiezza.
Pur su questa nobile falsariga, l’incontro propone, immodestamente, altre inquisizioni e possibilità, non fosse che per la contaminazione dei media su cui gioca.
Davide Ferrario, regista, sceneggiatore e scrittore, è affascinato dal 45° parallelo, filo conduttore tra gli orizzonti sconfinati della Mongolia e un luogo senza orizzonte come la pianura padana. Partecipano a questa sorta di ossessione, ciascuno beninteso con le proprie peculiarità culturali, due suoi compagni di viaggio: Massimo Zamboni, musicista e scrittore, con i suoi altrove mongoli e berlinesi, mediorientali e bosniaci, in cui la pratica musicale si confronta con l’urgere della Storia.
Su un côté altro ma consonante, Paolo Rumiz, giornalista e scrittore, con le sue testimonianze di viaggio insieme brillanti e profondamente dentro le cose che, nonostante Altan che ‘dismaga’, assumono talvolta la dimensione dell’epos soprattutto quando passano attraverso la fatica anacronistica della bicicletta, e la fotografa e documentarista Monika Bulaj, capace con le sue istantanee di mirare al cuore di persone, luoghi, situazioni (e viene in mente un altro che in proposito avrebbe avuto da mostrare e dire, l’umile e grandissimo Luigi Ghirri, scelto et pour cause da Magris per la copertina della sua ultima fatica letteraria).
A margine di tanta carne al fuoco, vorremmo concludere con altre due citazioni. Nel mediometraggio Sul 45° parallelo di Ferrario, Riccardo Bertani, un contadino della bassa reggiana che sostiene di conoscere cento lingue, afferma di non essersi mai spinto oltre il triangolo Milano-Torino-Firenze per non rimanere deluso dai paesi sui quali ha fantasticato studiandone gli idiomi. Per altri versi, Joris-Karl Huysmans in A rebours fa dire al suo Des Esseintes che ha volontariamente perso il treno per Londra dopo una ricca anticipazione di vita e abitudini inglesi rubata in un pub di Parigi: “Quale aberrazione non è stata la mia quando tentai di rinnegare le mie vecchie convinzioni, di condannare il pegaso della fantasia che mi porta dovunque voglio! Quale stoltezza avere creduto, come un vero baggiano, alla necessità, all’interesse che presenterebbe per me lo spostarsi!”.
Non è una provocazione: ci sono paura e snobismo, ma anche verità, in queste affermazioni. Compito del viaggiatore è, forse, anche quello di confrontarsi con l’immobilità. (Paolo Vecchi)

 

 


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