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Roberto FerrucciIL TACCUINO DI ROBERTO FERRUCCI

gli ultimi scatti....

arrivederci alla prossima edizione...

Il nuovo libro di Carrère


Immaginate di salire in treno con il vostro bel giornale sottobraccio,
di sedervi sul posto che più vi aggrada, mettervi comodi e, aprendo le
pagine centrali, incappare nel racconto di uno scrittore che inizia
così: “Hai comprato Le Monde all’edicola della stazione, prima di
salire sul treno. È oggi che esce il mio racconto, te l’ho ricordato
stamattina al telefono aggiungendo che sarebbe stata un’ottima lettura
per il viaggio”. E poi: “Voglio farti una proposta. A partire da questo
momento, tu farai quello che ti dico. Letteralmente . Passo passo. Se
ti dico: smetti di leggere alla fine di questa frase e non ricominciare
prima di dieci minuti, tu smetti di leggere alla fine di questa frase e
non ricominci prima di dieci minuti”. Roba strana, no? Mai vista.
Infatti è successo un putiferio, in Francia, dopo che Le Monde ha
pubblicato questo racconto di Emmanuel Carrère intitolato Usage du
monde. Un putiferio perché il racconto è un gioco erotico proposto alla
sua compagna che quel giorno avrebbe dovuto raggiungerlo a La Rochelle.
Alla sua compagna e a tutti i lettori del giornale, ovviamente. Ora,
quel racconto qui in Italia diventa un libro pubblicato da Einaudi e
intitolato Facciamo un gioco (pp. 50, €.6,50), tradotto da Paola Gallo.
Una provocazione, un gioco, quello messo in atto da Carrère: «Sì – dice
l’autore, ospite al Festival di Alpe Adria Cinema con il suo film
“Ritorno a Kotelnich”. Un gioco e qualcosa di adolescenziale, anche.
Un’approccio alla sessualità giocoso, divertente. Credo che lo scandalo
che si è scatenato in Francia dipendesse dal fatto che è uscito
all’improvviso su uno dei quotidiani più prestigiosi del mondo. Nessuno
poteva immaginarselo. Credo anche si tratti di un esperimento
assolutamente inedito, non mi pare che mai uno scrittore abbia
pubblicato su un giornale un racconto del genere». E la forza, lo
sconcerto che la sua lettura ha provocato oltralpe sta proprio nella
sua collocazione: «Le Monde ha ricevuto un sacco di lettere di protesta
da parte dei lettori del giornale, al punto che la direzione ha deciso
di giustificarsi qualche giorno dopo pubblicando un articolo di scuse
che io ho trovato del tutto ingiustificato: se decidi di pubblicarlo lo
fai perché ci credi, altrimenti non lo fai. Detto questo immagino che
in Italia andrà diversamente. Il fatto che esca in volume, implica che
uno sceglie di andarselo a comprare. Si tratta di una scelta. Ben
diverso che trovarselo all’improvviso, la mattina, dentro le pagine del
giornale preferito».
Poi però ci sono stati anche altri interventi da parte dei lettori.
Carrère ha messo la sua mail alla fine del racconto e ha ricevuto oltre
un migliaio di email: «Nove su dieci sono per fortuna di adesione al
testo, all’idea, al divertissement. Il restante un per cento mi dà del
perverso, maniaco e quant’altro».
E nell’ambiente letterario? Qual è stata la reazione? «Un aneddoto: un
mio amico, uno che ama molto i miei libri ha detto che dopo avere letto
questo racconto era felice di avere una sessualità adulta. Ma che vuol
dire, mi chiedo io, sessualità adulta? Se è quel che credo sono felice
di non averla».
Chi vuole partecipare, dunque, a questo gioco?

 

Uno scrittore al cinema

- Non sono poi molti i lettori in Italia che, più o meno incidentalmente, sono incappati nella lettura di un romanzo intitolato semplicemente Baffi (Tascabili Bompiani). Tutti quelli che lo hanno letto, però, se lo ricordano bene. Lo hanno amato come capita per quei libri - o quei film - definiti “cult”. Ovvio che da quel momento abbiano amato pure il suo autore, Emmanuel Carrère, francese, classe 1957, considerato uno dei migliori scrittori della sua generazione. Fra i suoi libri una splendida biografia di Philip Dick, il romanzo La settimana bianca (Einaudi), oltre a un saggio sull’ucronia mai tradotto in italiano. Sono solo alcuni tra i libri di Carrère che ora diventa regista. Si prende una vacanza dietro la macchina da presa, come già aveva fatto il suo coetaneo e collega Jean-Philippe Toussaint. Ed è proprio la sorella di Toussaint, Anne-Dominique, ad aver prodotto Retour à Kotelnitch.
Un film a metà fra il romanzeco e il documentario. Carrère è finito in quel paesino a 800 chilometri da Mosca per raccontare la storia di un soldato ungherese, prigioniero di guerra laggiù, creduto morto dai suoi familiari e riapparso all’improvviso cinquantacinque anni dopo. Il risultato fu un reportage per la tv. Ma Kotelnitch è uno strano luogo, una stazione in mezzo al nulla, gli abitanti guardano passare i treni senza prenderli mai. Treni russi, affascinanti, evocativi. E uno scrittore non può che rimanere attratto da un posto simile. Ne sente tutto il romanzesco da stanare, da raccontare.
«Volevo fare un documentario su Kotelnitch», dice Carrère, «ma non sapevo bene da che parte prenderlo, cosa filmare. Per un mese ho vagato per il paese, riprendendo un po’ a caso, poi una sera ho conosciuto Ania e Sacha: lei 25 anni, innamorata della Francia, bravissima a cantare vecchi brani russi, una un po’ mitomane per certi aspetti, bizzarra. Lui, ufficiale locale dell’Fsb (ex Kgb), che non si lasciava filmare. Avevano uno spessore romanzesco naturale. Sono ritornato in Francia con cento ore di girato, senza sapere bene cosa farne, cosa tirar fuori da tutta quella roba».
Ma quei due erano un romanzo di per sé. Carrère da narratore di talento lo sentiva. Perciò, un giorno, all’improvviso, arriva una telefonata. Dall’altra parte, Sacha: Ania e suo figlio di otto mesi sono stati uccisi da un folle. Per la terza volta Carrère torna Kotelnitch: «Questo fatto sconvolgente ha ovviamente sconvolto anche il film. Sono tornato là con le immagini di Ania che avevo girato. Le ho mostrate ai suoi parenti una sera. Fuori c’erano 25 gradi sottozero. Non finivamo di bere. E intanto questa storia assumeva le dimensioni fluviali di un romanzo russo. Bevevamo, parlavamo. Parole e alcool moltiplicavano la violenza di ciò che era successo. Quando riguardo le immagini di quella sera, mi sorprendo ancora che si siano lasciati riprendere».
Ma c’è qualcosa di più intimo in questo viaggio che riguarda Carrère stesso. I percorsi narrativi di uno scrittore non sono mai casuali. Carrère è di origini russe. C’è allora anche una ricerca di sé, dentro a questo film. Qualcosa che ti risuona dentro tuo malgrado e ti trascina laggiù. Percorsi più da scrittore che da regista: «Sì, sento di aver fatto un lavoro da romanziere», conferma Carrère, salvo poi non escludere di proseguire nell’esperienza cinematografica. Con che cosa? Avete presente quel formidabile romanzo cult... 

Prove tecniche in sala

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incontro con Rade Serbedzija

- La chitarra è arrivata di soppiatto. E alle presentazioni di libri è piuttosto raro vederne in giro. Di libri, quelli sì. E c’era anche ieri, a Trieste, il libro. L’amico dice di non conoscerlo più, edito da Amos Edizioni di Mestre (pag. 186, € 10). L’autore – ecco il motivo della chitarra – è l’attore Rade Serbedzija, a cui il Festival di Alpe Adria Cinema dedica con la sezione “Carta bianca” una breve retrospettiva di cinque film scelti proprio dallo stesso attore. Attore che è anche poeta, musicista, una figura mito della ex-Jugoslavia: «Non c’è un motivo preciso – dice Serbedzija - per cui scrivo. O meglio è lo stesso per cui recito, suono, bevo, gioco a calcio, respiro». Non poteva dunque procedere come una qualunque presentazione, quella con Rade Serbedzija. A un certo punto si è alzato e, accompagnato dal figlio allo strumento, ha intonato fra la sorpresa di tutti Non voglio contro il mio compagno, testo peraltro inserito nel libro. È venuto fuori il Serbedzija uomo di palcoscenico, capace di spaziare da Shakespeare all’etno-rock.
Prima, ha parlato di questo suo libro, tradotto da Ginevra Pugliese, introdotto da Miljenko Jergovic e accompagnato da alcuni disegni di Jagoda Buic. E subito, ecco il problema che gli si pone in queste occasioni: in quale lingua parlare. In inglese? In croato? In italiano no. Ma non si tratta di una questione soltanto di luogo in cui ti trovi. Rade Serbedzija da anni sostiene di aver perduto la propria lingua madre. Una perdita legata allo sradicamento, allo spaesamento di chi ha subito sulla propria pelle una guerra (quella della ex Jugoslavia) che mai ha voluto, continuando a riconoscersi in un paese che altri hanno voluto disintegrare. Serbedzija, croato di etnia serba, che ha vissuto in Slovenia e che oggi ha casa in Istria, è il riassunto di quell’ancora assurdo conflitto.
«Lo spostarmi di continuo, il sentirmi fuggiasco mi ha provocato una grande tristezza, che si è riflessa poi nella persone che mi stavano accanto o che ho incontrato strada facendo. Era come un virus. L’esilio è qualcosa che consuma la personalità, la sdoppia. È come se fosse un primo passo verso la schizofrenia. Non è un caso se nei film di questi ultimi anni ho sempre interpretato lo straniero, con l’inglese o l’italiano contaminati da uno strano accento».
Le poesie di Serbedzija sono una sorta di diario interiore, di percorso dentro agli anni della guerra vissuti in una sorta di continua fuga. «Queste poesie raccontano della paura. Uno crede che essendo famoso non gli potrà capitare mai, eppure per due volte ho rischiato di essere ucciso durante la guerra». Ce n’è una – oltre a quella, tremenda, che dà il titolo alla raccolta – che si chiama Le targhe verdi scritta nel 1992 a Lubiana: “Se sapessero quanto sono pericoloso/non me le avrebbero mai date/sono in uno stato in cui provoco tumulti/agito le masse…”. Le targhe verdi sono quelle che il governo davano a serbi, croati, bosniaci residenti in Slovenia. Una sorta di marchio a dir poco discutibile. “Veramente volevo dire/che con le targhe verdi che ho ricevuto di recente a Lubiana/un mio grande successo/sono diventato infine uno straniero nella propria terra…”.
Ora però c’è tornato, Serbedzija, nella sua terra. Vive a Los Angeles ma l’intera estate la passa in Istria dove, a Brioni, ha dato vita insieme alla moglie a un progetto di teatro internazionale. Per il cinema, è in vista un film con Benicio Del Toro: «Ma il nome del regista non lo dico, per scaramanzia».

 

Incontro con Jan Nemec... Il testo

Ci sono registi che fanno sempre lo stesso film, per Nemec non è così….

Prima di fare il regista negli anni ‘50 sono stato un musicista. Ho iniziato a fare film per caso. Senza voler fare paragoni nel merito, io mi sento vicino a Miles Davis che ha cambiato spesso il suo stile nel corso della sua vita.
Perciò, per me, ogni nuovo film è una nuova composizione musicale sulla quale improvvisare. Il problema è che per motivi personali c’è un abisso di vent’anni nella mia carriera, fra gli anni settanta e i novanta. Ho ricominciato a fare cinema dopo la rivoluzione di velluto nel 1989, al mio ritorno a Praga. Ovvio che non potessi più fare ciò che avevo fatto vent’anni prima.

Nel film I diamanti della notte c’è un finale aperto, i due protagonisti non si sa che fine faranno, sta allo spettatore portarlo a conclusione come crede. Fino a che punto gli interessa davvero il contenuto reale, storico, della tematica ebraica, l’importanza storica della vicenda?

Nei Diamanti della notte, il background storico si può benissimo spiegare. In realtà lo sviluppo dei fatti si è svolto realmente. Lo scrittore autore del racconto da cui è tratto il film era di origine ebraica e la sua fuga è quella narrata nel film. Al di là di questo, però, vuole dare nella sua opera artistica una valenza artistica, il film deve restare film, si tratta di un mondo a parte rispetto alla realtà, ne prescinde, come accade in tutti i linguaggi artistici.

Lei è cugino di Vlacav Havel. Avete mia pensato di lavorare insieme?
Sì, sono cugino di Havel. Ma questo non ha mai influenzato il mio percorso artistico. All’uscita del mio primo film che coincise con la prima pièce teatrale di Havel, molti dissero che ci eravamo messi d’accordo nell’attaccare la nomenclatura. Ovviamente si trattava di una coincidenze. Nel ‘68 abbiamo scritto insieme una sceneggiatura che si chiamava Heartbeat e a cuasa dell’invasione di Praga, ma non credo verrà mai girata. È una storia che racconta come delle persone potenti e anziane fanno morire i giovani per togliergli il cuore e continuare perciò a vivere. Quando nell’89 Havel è diventato presidente non ha voluto pubblicare la sceneggiatura perché la fiction era diventata realtà.

La vostra giovinezza è stata rubata…
Quel periodo d’oro, la giovinezza, è irrimediabilmente perso. Le cose rubate in modo violento non saranno mai restituite. Però non eravamo del tutto pessimisti nemmeno allora. Ognuno poi ha trovato posto altrove, più o meno tutti quelli della Nuova Onda cecoslovacca, ci sono riusciti. Alcuni sono andati in America come me e Forman. Importante è ciò che è capitato a Marta Kubisova, mia ex moglie, cantante che nel ‘68 era nota in Gernmania e doveva cantare anche all’Opèra di Parigi, l’unica dei rappresentati della musica pop che si pose contro l’invasione sovietica e lo fece mettendo a repentaglio la propria vita. Questo suo atteggiamento di principio le ha distrutto la carriera. Per vent’anni non ha più potuto fare niente. Solo dopo la rivoluzione di velluto ha potuto ricominciare, ma anche lei ha perduto la sua giovinezza.

È strana questa sua partecipazione a un film reso famoso più per via del libro da cui è tratto che per l’esito finale: L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, diretto da Kaufman.
Quando uscì il libro fui proprio io a proporre di trarre un film dal libro a Saul Zaenz, che aveva prodotto i film di Forman. Disse subito di sì. Ingenuamente pensavo che lo avrebbe fatto fare a me. Solo dai giornali seppi che lo avrebbe affidato a Kaufman. A me chiese di fare il supervisore artistico, figura inesistente nelle gerarchie cinematografiche. Ero una specie di regista in seconda con l’obbligo categorico di non poter intervenire sul finale. Il film non è né bello né brutto, ma se non ci fossi stato io sarebbe stato orrendo. Gli inserti storici, quelli in bianco e nero li ho girati io nel ’68 a Praga. Dovevo stare attento a tutti i loro svarioni: quando fecero le riprese del carro armato bruciato, secondo il regista i praghesi avrebbero dovuto gioire, ballare; la bandiera era sempre messa al contrario; i libri che mettevano in mano ai personaggi erano in cirillico, cosa che mai un cecoslovacco avrebbe fatto. Ogni giorno facevano fesserie di questo tipo e io dovevo correggerle. Pensi che il capo del catering, che era il fratello del produttore, non mi dava da mangiare perché la mia figura, il mio ruolo, non esisteva, appunto.
Altro episodio allucinante riguarda ancora la mia ex moglie Marta Kubisova. Volevano una canzone che avesse caratterizzato gli anni sessanta, io proposiHey Jude dei Beatles cantata in ceco da Marta. Nella colonna sonora la canzone c’è. Però nei credits manca del tutto, nemmeno una citazione. E lei non ha avuto nemmeno una lira. Io protestai e il produttore disse che nemmeno John Lennon aveva avuto i diritti d’autore, è in buona compagnia la tua Marta, aggiunse. Lei aveva bisogno di soldi e gli ho chiesto mandale qualcosa. Mi disse di mandarle una parte del mio onorario. Spesso mi chiedono perché non sono rimasto in America. Questo è uno dei tanti motivi.
Vorrei aggiungere che le riprese che feci a Praga, nell’agosto del ’68 (e che gli costarono in qualche modo l’esilio negli Usa nel ’74, ndr), furono inserite in Oratorio per Praga, un documentario di venti minuti, fatto per il pubblico americano, in maniera smaccatamente diversa da come lo avrei voluto e per questo non l’ho portato qui a Trieste. Ha vinto il premio Fipresci al Festival di Mannheim. Quel documentario, che non fu, ripeto, opera mia, sucitò molte polemiche.

 

Incontro con Ian Nemec al Caffè Audace

- Lunedì 19 gennaio 2004

Affollatissimo l'incontro con il regista ceco Ian Nemec ai quotidiani incontri al Caffè Audace in Piazza Unità

 

Intervallo calcistico

- Fatalità, domenica, Triestina-Venezia allo stadio Nereo Rocco, sotto un tempo da tregenda. E la vittoria della Triestina... 

Quando la vita è spietata

domenica 18 gennaio 2004

Lichter (Luci lontane) di Hans-Christian Schmid, dove la luce da seguire è quella di una vita migliore. L'illuminato Ovest da un'Est che non è più quello di una volta ma che invece è forse peggiore di prima. Luci che bucano facilmente il buio, luci che ti chiamano, che ti incantano. "Vieni, raggiungici in questo lunapark vacuo e fittizio. Vieni, arricchisciti e - soprattutto - consuma". Poi dopo, lo sappiamo, le cose non vanno propriamente in questo modo. Ma dalla Polonia, dall'Ucraina, il lunapark è il sogno, il miraggio di una vita migliore. Storie di vite che si intrecciano, legami che oltrepassano i confini e si ingarbugliano perfettamente in una struttura tenuta insieme con efficacia. Un film spietato e bellissimo. Disperato e affascinante. Crudo e incantevole. 

Ricevimento al consolato svizzero (2)

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Ricevimento al consolato svizzero (1)

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Titoli di coda

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La Baghdad che non ti aspetti

- Sabato 17 gennaio 2004

Samir, il cantastorie svizzero, ci ha mostrato col suo film Forget Baghdad una città inedita. Attraverso il racconto di quattro componenti la comunità ebraica poi espatriati in Israele, ci fornisce uno sguardo prezioso: le vicende degli ebrei comunisti di Baghdad. Alla luce di tutto ciò che sappiamo oggi, sembra quasi paradossale renderci conto di ciò. Choccante, quasi. Ci conferma che la storia è fondamentale e non esserne a conoscenza (non sempre per colpa nostra ma per via di un'infomazione ormai falsata e mistificante) ci porta a giudizi affrettati, ottusi.
Samir ha rintracciato quattro figure, fra cui spicca quella di Samir Naqash, celebre scrittore che - contraddizione fra le contraddizioni - non viene pubblicato in Israele perché continua a scrivere in arabo.
Morale: mai fermarsi alle semplici infomnazioni che ci vengono fornite, ma andare a fondo, per quanto possibile, ma in qualunque modo possibile. 

Amori, come al solito

- Sabato 17 gennaio 2004
Poi si va sempre a parare lì: rapporto di coppia. Dal primo amore, il cortometraggio L'escalier (La scala) del francese Frédéric Mermoud, al matrimonio già logoro fra una giovane coppia di musicisti, Neverne hry (Giochi d'infedeltà) di Michaela Pavlatova, interpretato da una bravissima Zuzana Stivinova fino al claustrofobico Succube d'amore di Tamas Sas. In ogni caso, alla fine, esci da queste proiezioni rassegnato. A stare insieme non ci si riesce, nulla da fare. Neanche quando sei poco più che adolescente o addirittura, come nel caso del secondo film, quando la rassegnazione parte da una ragazzina di dieci anni, testimone di due fallimenti di coppia e che nel suo diario dichiara, in chiusura di pellicola, che lei non ha dubbi: resterà single a vita.
Esci fuori dalla sala rassegnato, insomma, come i personaggi dei film, ti guardi intorno e chi ti passa accanto non è che il rappresentante del proprio privato fallimento. Tutti insieme non si è altro che un grande, unico, ineluttabile fallimento. Non resta allora che raccogliere qualcuno, qualcuna di loro ecacciarsi dentro una birreria per fortuna ancora aperta. A parlare di cosa, fra una birra e l'altra? Del fallimento della convivenza, ovviamente. Non ci resta che un ultimo giro di grappe. Buonanotte. 

Primo film in concorso

- L'apertura in pellicola è toccata invece al lungometraggio sloveno di Damjan Kozole intitolato Rezervni deli (Pezzi di ricambio). Il film, in concorso, è ambientato a Krsko, piccola cittadina al confine con la Croazia, nota purtroppo per essere la sede dell'unica centrale nucleare del paese. La storia è incentrata attorno a un ex campione di corsa che per vivere trasporta illegalmente immigrati clandestini dal confine croato a quello italiano. Raramente il cinema sloveno si era misurato con un argomento così forte, rischioso, che mette un paese "nuovo" - che fra qualche mese entrerà nella Comunità Europea - di fronte alle storture "globali" dell'occidente. Storture dalle quali nemmeno la Slovenia è affatto immune. Il film è uno dei dodici in concorso che saranno giudicati da una giuria composta da Luciana Castellina (già parlamentare europeo e presidente di Italia Cinema), Michel Demopoulos (direttore del Festival Internazionale di Salonicco), Fabrizio Grosoli (critico cinematografico e produttore), Martin Schweighofer (direttore generale dell'Austrian Film Commission) e Petr Zelenka (regista praghese, vincitore del festival di Alpe Adria dello scorso anno con il film Rok diabla). 

Ammaniti's news

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E' stata un'occasione per entrare nell'officina di Niccolò Ammaniti, l'incontro alla Sala Excelsior. Il quale ha fra l'altro raccontato che il romanzo che sta scrivendo diventerà direttamente una sceneggiatura e poi un film diretto da Ammaniti stesso. Un percorso di scrittura certamente inedito nel panorama letterario italiano ma forse anche mondiale. La vicenda di questo libro che ancora non ha titolo, si svolgerà in Veneto. Non solo. L'altra notizia inedita è la conferma che Goran Paskljevic, il grande regista serbo, autore fra l'altro del bellissimo La polveriera, porterà sullo schermo Ti prendo e ti porto via, il terzo libro di Ammaniti. Il film, che sarà girato in Serbia, sarà una coproduzione europea. 

Partiti!

- Forse avrebbe preferito starsene seduto là davanti, in platea, e non al tavolo, a parlare di sé. È uno fatto così, Niccolò Ammaniti. Nonostante il mezzo milione di copie vendute di Io non ho paura, nonostante le traduzioni (e le acclamazioni) in tutto il mondo, nonostante il "rischio" di ritrovarsi seduto, fra poche settimane, a due passi da Nicole Kidman, Russel Crowe, Martin Scorsese, in attesa di un eventuale premio Oscar, lui si imbarazza a stare al centro dell'attenzione. E invece lo è stato di nuovo, l'altra sera, all'inaugurazione della 15^ edizione di Alpe Adria Cinema, Trieste Film Festival. Un incontro con il pubblico intitolato Da un libro a un film, che ha visto l'autore romano interagire, oltre che con i propri lettori, con la professoressa Marina Paladini, docente di letteratura italiana dell'Università di Trieste e Roberto Nepoti, critico cinematografico di Repubblica.  

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